
E' noto che con i normali
protocolli farmaceutici di screening molecolare si produce circa 1
molecola con azione terapeutica su 30.000, circa lo 0,003% sul
totale. Se si considera l’enorme numero di molecole a disposizione
nel regno vegetale, si può intuire il perché la ricerca
etnofarmacologica sta assumendo sempre più importanza presso
l’industria farmaceutica.
Non è un mistero che
l’industria farmaceutica si è sempre rivolta al mondo delle piante
medicinali, come modello di sviluppo dei farmaci, la differenza sta
nel fatto che negli ultimi anni le ricerche prendono spunto dagli
impieghi popolari.
Un esempio chiarificatore
può essere il seguente: nel 1960 negli Stati Uniti venne iniziata
una ricerca di screening casuale di molte specie di piante per
l’identificazione di molecole ad attività farmacologica. La
ricerca durò 16 anni e portò infine all’identificazione di una
sola molecola di interesse farmacologico: il taxolo. Trent’anni
dopo, nel 1990, una ricerca simile si concentrò stavolta su 4500
specie tutte selezionate in base ai loro usi popolari e, nell’arco
di appena 5 anni, si concluse con la scoperta di 3 nuove molecole
farmacologiche.

Nel fitocomplesso le
diverse molecole entrano in sinergia tra loro per amplificare la
loro attività terapeutica dando un risultato sperimentalmente non
ottenibile semplicemente sommando le diverse azioni dei singoli
principi attivi.
Questo è un aspetto
spesso difficile da affrontare in sede di ricerca scientifica ed è
fonte di numerosi risultati imprecisi e poco affidabili. L'analisi di un singolo principio attivo non è praticamente mai esaustiva delle proprietà di una pianta o di una parte di essa.
La ricerca in questo è
campo è indispensabile se pensiamo che un terzo delle cause di morte
del pianeta continua ad essere determinato da malattie infettive
teoricamente curabili, ma a costi non sostenibili dai due terzi
dell’umanità, e dall’altro alla vastità del patrimonio vegetale
su cui è possibile indagare.
Recenti stime hanno
determinato che le specie vegetali conosciute sino ad oggi sono circa
300.000 di cui solo il 15% ha un impiego terapeutico tradizionale; di
questo 15% (45.000 specie) solo per l’1% (ovvero 4.500 specie) è
stata verificata la validità scientifica. Sebbene queste siano solo
stime, si tratta di una prospettiva generale che spiega l’enorme
mole di lavoro ancora da svolgere.
L’importanza della
ricerca di nuove medicine in campo botanico non può prescindere
dalla valorizzazione delle culture e delle risorse dei paesi di
origine delle varie specie vegetali.

Già questa raccolta,
purchè effettuata secondo una certa etica, può garantire l’impiego
di centinaia di lavoratori senza creare gravi danni all’ambiente.
Anzi, l’elevazione degli standard di sicurezza per la materia
prima, la necessità di avere un prodotto esente da pesticidi,
metalli pesanti e altri agenti inquinanti, dovrebbe essere un
incentivo alla salvaguardia dell’ambiente di raccolta.
Ma è fondamentale capire
che anche le pratiche di coltivazione devono essere condotte
nell’ambito della salvaguardia dell’ambiente e della
biodiversità, senza creare per le piante medicinali gravi
prospettive di monocoltura e di distruzione dell’habitat ecologico
come già avvenuto in passato per altre specie tropicali (caffè,
cotone, tabacco, cacao, etc.).
Conservazione ed Ecologia
sono strettamente legate alle piante medicinali, che se ben difese
potranno essere disponibili per lungo tempo, continuando a fornire
benefici per la salute e l’economia del mondo.
La Conservazione di nuove
specie medicinali non si riferisce solo a quella relativa alle
piante, ma anche alle culture che le utilizzano. Recentemente la
globalizzazione nello sviluppo dei farmaci che mirano a risorse di
Medicina Tradizionale ha sollevato il problema dei diritti di
brevetto intellettuale e di priorità delle scoperte ai paesi
d’origine.

In questo contesto è
evidentemente necessaria una migliore legislazione a livello mondiale
(e nazionale nei singoli casi) per proteggere i diritti di
sfruttamento di chi detiene da sempre queste conoscenze tradizionali,
così come i diritti degli Stati sovrani sulle proprie risorse
culturali e genetiche.
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